Artemisia Lomi gentileschi nacque nel 1953 a Roma da Orazio Gentileschi, pittore pisano e da Prudenzia Montone, che morì quando la ragazza aveva solo 12 anni.
Il padre la incoraggiò fin da subito a inseguire il suo talento pittorico e si occupò personalmente della sua formazione. Subì l’influenza del Caravaggio, attraverso il lavoro del padre e non ebbe una formazione artistica comune, in quanto Orazio la teneva per lo più segregata in casa. Artemisia infatti oltre a dedicarsi alla pittura, era subentrata alla madre e si occupava della casa e dei fratelli, inoltre all’epoca la pittura era considerata una carriera prettamente maschile.
La tela che suggella l’ingresso di Artemisia nelle arti pittoriche è “Susanna e i Vecchioni”, prodotta nel 1610, anche se molti critici sostengono fosse stata aiutata dal padre nel conseguimento dell’opera.
Nel 1611 Orazio decise che la figlia avrebbe dovuto studiare la prospettiva con un suo amico, Agostino Tassi, che aveva fama di essere iroso e coinvolto in vari processi giudiziari.
Agostino fece numerose avances ad Artemisia, sempre rifiutate, fino a che, approfittando dell’assenza di Orazio, abusò sessualmente di lei.
Tassi cercò di evitare ripercussioni, promettendole che l’avrebbe sposata e, visto che all’epoca il matrimonio riparatore era la via più dignitosa per riparare al danno subito per la vittima, Artemisia accettò, intrattenendo una relazione con lui. Orazio però scoprì che Agostino era già sposato e indignato lo denunciò a Papa Paolo V.
Iniziò il processo e Artemisia fu molto coraggiosa nell’affrontarlo, in quanto dovette subire pesanti e umilianti visite ginecologiche, oltre ad essere stata messa a confronto con falsi testimoni che la calunniavano. per dimostrare che diceva la verità, si sottopose anche a un’interrogatorio condotto mediante una tortura detta “della sibilla”, che consisteva nello stritolamento delle falangi, una pratica che poteva farle perdere l’uso delle dita, che avrebbe potuto costringerla ad abbandonare la pittura.
Agostino infine fu condannato per “sverginamento” al pagamento di una sanzione e la scelta tra abbandonare Roma o essere incarcerato per cinque anni: egli scelse l’esilio, anche se di fatto non si spostò mai da Roma, protetto dai suoi committenti.
Fu Artemisia a doversi allontanare, poiché a Roma erano in molti a non crederle e la sua reputazione sembrava irrimediabilmente compromessa. Il trauma dell’abuso subito influenzò inoltre visibilmente la sua arte.
Si sposò subito dopo la condanna del suo stupratore con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore, per volontà del padre che voleva rimediare alla danneggiata onorabilità di Artemisia.
La Gentileschi segui subito il suo sposo a Firenze e fu introdotta alla corte di Cosimo II da uno zio, dove finalmente conobbe il successo a lungo desiderato. Tra i suoi amici figuravano Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane.
Artemisia nel periodo fiorentino adottò il cognome Lomi, come a volersi emancipare da quello che per lei era stato un padre e padrone.
Il matrimonio invece non fu affatto felice, lo sposo era freddo e sperperatore, ma in ogni caso Artemisia e Piero si ritrovarono genitori di due figli e due figlie.
Nel tempo il rapporti con Cosimo II si era deteriorato, il marito continuava a dilapidare le finanze della famiglia e Artemisia aveva intrecciato una relazione con Francesco Maria Maringhi.
Per tutti questi motivi si persuase a tornare a Roma, in modo da evitare gli scandali conseguenti alla condotta dei due coniugi.
L’accoglienza fu molto migliore di quando era stata praticamente costretta a partire: erano in molti infatti ormai ad apprezzarla come pittrice. Purtroppo era ricercata per lo più come ritrattista e come pittrice che riproduceva eroine bibliche, ma le erano precluse le commesse migliori, come gli affreschi e le pale di altare. La pittrice quindi si sposto ripetutamente e si stabilì per un breve periodo a Venezia, dove fu ripetutamente omaggiata e celebrata.
Si trasferì nel 1630 a Napoli che lasciò solo per una breve parentesi alla Corte di Carlo I a Londra e per altri brevi viaggi.
Morì presumibilmente di peste nel 1656 a Napoli e fu seppellita nella Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli sotto una semplice lapide che recitava “Heic Artemisia”, “Qui Artemisia”. Purtroppo sia la lapide che il sepolcro sono oggi perduti.


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