Avevo programmato di alzarmi presto oggi, di fare ginnastica di scrivere e di non piangere perché il viso non mi si gonfiasse. Perché se è vero che il dolore è ancora fresco, il blog deve continuare o che blogger sarei? Non ce l’ho fatta. Son andata a letto in lacrime. Mi sono svegliata una quantità di volte indefinita, tra sogni e incubi, quando è suonata la sveglia l’ho disattivata. Dopo un tempo incalcolabile in dormiveglia, mi sono decisa, ho preso il cellulare e mi sono ripresa al risveglio, come a provare che potevo farcela, che in fondo si trattava solo di iniziare. Mi sono guardata e, tra viso gonfio e occhi rossi, ho capito che l’effetto “disegno a carboncino” sarebbe stato meglio. Ho pensato che non ce l’avrei fatta a girare il tutorial make-up e un po’ di sconforto mi è preso, ma con enorme sforzo mi sono detta: “E che problema c’è? lo fai domani! Almeno presenti truccata alle ragazze di Non Una Di Meno Empoli in riunione e non le spaventi.”
Per alcuni potrà sembrare esagerato, ma per me il blog è praticamente un lavoro, fortunatamente un lavoro che mi piace.
In tutti i lavori che ho fatto, la regola era sempre una, devi essere piacevole.
Quando iniziai a fare burlesque, non ero esattamente una persona felice, ma mi dissero: “A nessuno piace una burlesquer triste”, così io iniziai a sorridere di più.
Nei call center ero obbligata a sorridere, perché le persone sentono il “sorriso telefonico” e anche se risolvevo problemi di gente frustrata che firmava contratti senza leggerli o attivava offerte senza badare alle regole, che mi urlava nelle orecchie, io dovevo sorridere.
Quando davo ripetizioni, dovevo sorridere, perché non potevo amareggiare le menti dei ragazzini che seguivo e così via.
Ad un certo punto questa maschera del sorriso mi si deve essere incollata in faccia.
Forse perché quando son dovuta stare a casa tre anni ammalata, avevo ben poco per cui sorridere e le mie amiche e amici erano spariti, un mio ex addirittura si era arrabbiato perché quando mi chiamava non lo accoglievo con voce festante.
Se torno ancora più indietro, mi ricordo di quando ero una bambina bullizzata, presa in giro da compagni e maestre perché piangevo.
Quando ho sviluppato la depressione, dopo la morte di mia zia, non sono riuscita a disfarmi della maschera.
Se esco, se ci sono altre persone intorno a me, io cerco di fare il mio dovere e di sorridere sempre. Faccio finta di nulla e le persone, quando scoprono della depressione si stupiscono, non ci credono.
Se da una parte mi fa piacere ammorbare il meno possibile il prossimo, dall’altra mi sento molto sola, senza contare quando mi stanchi portare una maschera che sembra sempre più pesante.
Quando ho scelto di parlare della depressione, l’ho fatto consapevole che avrei potuto avere grane, ma con la speranza che questo aiutasse le persone come me a sentirsi meno sole.
L’ho fatto anche per ricordare alle persone che è una malattia vera e propria, che i depressi non sono solamente tristi, che questa malattia si può curare e tenere sotto controllo.
La depressione ha alti e bassi e quando poco più di una settimana fa ho perso il mio piccolo Jim, credo di essere sprofondata, ma ogni giorno cerco di farmi forza e di andare avanti.
Provo un dolore e un senso di vuoto incredibili, sono stranita, ma cerco di resistere alla tentazione di non alzarmi più dal letto.
La mia maschera sarà anche un peso, sarà stancante, ma a volte porta sorrisi e questo porta un sorriso autentico anche a me.


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